Quando si va a trovare un produttore di vino in Toscana, nove volte su dieci la visita inizia dalla cantina, con un giro in mezzo alle botti che si conclude, naturalmente, con l’immancabile assaggio. Solo in un secondo momento si farà una passeggiata per i vigneti. In Piemonte, invece, la prima tappa prevede una visita ai filari, gli appezzamenti di proprietà, i Cru e i Sorì (le parti alte dei vigneti, quelle più esposte al sole). Questo perché il viticoltore piemontese ha un legame molto più diretto con le proprie vigne e la loro storia. Non che in Toscana manchino Cru importanti o piccole proprietà tramandate di generazione in generazione, ma è come se l’importanza del vigneto fosse data per scontata e passasse in secondo piano. Il produttore piemontese si sente prima di tutto custode di una collina o di una porzione di terra e vive come una missione il suo compito di occuparsene al meglio per consegnarla integra a chi verrà dopo di lui. Questo accade perché storicamente il Piemonte, soprattutto nella zona delle Langhe, ha sempre avuto proprietà frazionate; inoltre l’enologia e l’agronomia francese, per motivi geografici e politici, hanno fatto scuola in questa regione, trasmettendo i concetti di Cru e microterroir, dove la qualità dei vini può cambiare anche di molto spostandosi soltanto di alcuni metri. È infatti quanto accade in Borgogna, dove con un piede si può stare sul vigneto più prezioso al mondo, il Romanée Conti, e con l’altro in un ottimo ma normalissimo “Premier Cru” Vosne Romanée, con una differenza di costo delle bottiglie nell’ordine di migliaia di euro.
In Toscana la terra che produce eccellenza è invece molto più vasta e le famiglie nobili hanno accumulato ettari su ettari di vigneto, spesso di grande qualità. La Toscana pare d’altro canto più Bordeaux, con i possedimenti sconfinati, le tenute tirate a lucido, i salotti e le sale di assaggio degne di un grattacielo newyorkese…
Ma c’è un’altra notevole differenza che contraddistingue le due più importanti zone di produzione italiane, entrambe tra le 10 più grandi del mondo, ed è relativa al vitigno principe: da una parte il Nebbiolo, misterioso e affascinante, mutevole di parcella in parcella, capriccioso e ostico, e dall’altra il solare Sangiovese, capace di crescere e produrre ovunque, ma di distinguersi solo in alcune zone ben delimitate. Il primo vinificato assolutamente in purezza, il secondo che alterna zone dove viene lavorato da solo, come a Montalcino, altre dove dà il suo meglio combinato con storici vitigni e altre ancora dove si sposa con vitigni stranieri rivelando un’anima insospettabile.
Da non sottovalutare anche il rapporto con il mercato, con una regione, la Toscana, dove marketing è una parola d’ordine che richiama investimenti di capitali da ogni parte del mondo e l’altra, il Piemonte, dove imperano realtà piccole o medie, ma comunque familiari, attente solo alla qualità di ciò che c’è dentro la bottiglia. Ogni anno le guide del vino premiano l’una e l’altra regione, elargendo riconoscimenti a destra e manca. Eppure l’annosa questione su dove risieda la massima qualità del vino italiano è destinata a rimanere senza risposta: si tratta di due mondi diversi destinati a non incontrarsi mai. Per nostra fortuna sono entrambe a portata di auto e forse la cosa più saggia da fare è invitare il lettore ad andare sul posto e decidere da sé.