GIAMBATTISTA VICO

“I governi devono essere conformi alla natura degli uomini governati”

Nei rapporti tra religione e scienza, ai primi del secolo XVII si distingue a Roma l’Accademia dei Lincei mentre a Napoli va sottolineata l’opera svolta nel campo scientifico dall’Accademia degli Investiganti, importante propaggine della fortuna galileiana nel Meridione.
Come già con G. Bruno e T. Campanella, con gli Investiganti Napoli rafforza il suo ruolo di centro della cultura filosofica italiana, ruolo che continua a rivestire con Giambattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 – Napoli, 23 gennaio 1744) e gli illuministi nel Settecento.
Sesto di otto figli, nasce a Napoli nel 1668 da famiglia di modeste condizioni; non si allontanerà mai dalla città, tranne un lungo soggiorno nel castello di Vatolla, vicino Salerno, per fare da precettore ai figli del marchese Rocca.
Studia dai gesuiti Grammatica e Umanità poi si orienta verso lo studio del Diritto iscrivendosi alla Facoltà di Legge, tra il 1689 ed il 1694.
Amico con personalità di spicco della cultura napoletana, Vico mostra un ingegno vivace e precoce, conosce le lingue classiche ma anche il francese e l’inglese (le due lingue emergenti del pensiero moderno); frequenta esponenti dell’anticurialismo e i soci Investiganti, che rivolgevano i loro interessi alla Scienza e alla Storia, concepita come sfoggio di erudizione ma anche come problema ideale. Diventa professore universitario di Eloquenza (Critica Letteraria, Retorica, Estetica) nel 1699 ma le difficoltà economiche persistono al punto da dover ridurre il numero di pagine da pubblicare affinché risulti meno costosa la stampa (anche il padre e gli altri fratelli Vico dipendono economicamente dal Professore).Quasi a conclusione di una fervida attività di studi, ottiene la prestigiosa carica di Storiografo regio nel 1735.
Un anno prima era stata pubblicata la sua opera maggiore, La Scienza Nuova un trattato filosofico scritto in italiano nel 1725 (1744 nella edizione definitiva, postuma) dove Giambattista Vico contrappone, all’astrattezza della matematica cartesiana, la concretezza della realtà spirituale la cui vita è nella storia dell’uomo: respinge il materialismo ed il razionalismo poiché a questi sfugge tutto ciò che non può essere oggetto di dimostrazione scientifica, ignorando così la storia della civiltà. Con la “scienza nuova” Vico intende ribaltare le posizioni del pensiero contemporaneo che era orientato verso la natura fisica e le scienze esatte, e promuove a verità il mondo umano e quello della storia dell’uomo: il filosofo napoletano considera la scienza come possesso delle cause generatrici delle cose e solo chi causa una cosa può dire di esserne a conoscenza; per la stessa ragione solo Dio ha “scienza” del mondo della natura perché ne è il creatore mentre l’uomo, cui è negata la Sua intelligenza, ne ha solo un’immagine superficiale.
Il concetto vichiano della storia presuppone il fondamentale rapporto tra la Filosofia (scienza del vero) e la Filologia (coscienza del certo): un binomio indivisibile in quanto si rischierebbe o l’astrazione, in mancanza della Filologia, o l’erudizione.
Vico muore a 76 anni a Napoli nel ’44; per la celebrazione funebre gli accademici dell’università di Napoli hanno una disputa con la congregazione di Santa Sofia (alla quale il filosofo era iscritto) su chi dovesse onorare il feretro che era già composto nel cortile. Non trovando un accordo, viene lì abbandonato dai congregazionisti. Riportata in casa, la salma viene finalmente accompagnata dagli onori degli universitari.
La vera grandezza di Giambattista Vico sfuggì ai suoi contemporanei che lo considerarono solo un ottimo professore, seppure non privo di genialità; la sua lezione cominciò ad essere accolta dagli esponenti dell’Illuminismo fino a diventare un modello nazionale di alto valore nel XX secolo grazie a Benedetto Croce.
” Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione”

R.L. Salvi.