Fin dagli inizi della sua attività, ho sempre provato un misto di curiosità e di simpatia per Gino De Dominicis (Ancona, 1º aprile 1947 – Roma, 29 novembre 1998), trasformatesi poi in infinita ammirazione. Ma non posso nascondere che per diverso tempo, quando era ancora in vita, l’obiettiva difficoltà di vedere il suo lavoro, la caparbietà capricciosa di sottrarsi a cataloghi e volumi precocemente commemorativi, la conseguente scarsa o nulla circolazione di fotografie, da lui giudicate corpi estranei, senza alcun legame con l’opera dell’artista, mi hanno creato una certa difficoltà a farmi un giudizio fondato e sereno.
Le amicizie e le frequentazioni di De Dominicis m’inducevano a ritenere la sua posizione piuttosto vicina ad arcaici residuati d’arte concettuale e povera, in verità molto più di lui pubblicizzati, visti e promossi. Mi sbagliavo. De Dominicis non aveva nulla a che fare con queste o altre espressioni, con pretese di globali interpretazioni del mondo. De Dominicis era solo, era il “grande solitario”, come lo era stato negli anni sessanta Domenico Gnoli. La sua posizione era infatti per definizione, e direi anche per carattere, eccentrica senza essere periferica, anzi essendo centrale al problema stesso dell’espressione. In un certo senso, ha agito in lui la lezione di Lucio Fontana, che arrivò al limite estremo dell’immagine senza uscirne. De Dominicis non ha voluto sottrarsi al confronto e ha ostinatamente cercato di verificare e dimostrare che è il quadro che fa l’ambiente. Per anni ha lavorato su superfici di legno dipinte con uniforme colore nero opaco, intervenendo su di esse preferibilmente con l’oro o con la matita. Penso al grande dipinto con i profili di Urvasi e Gilgamesh, in contemplazione di una marina sulla quale splende la luce solare di un solido geometrico. Il confronto tra il fondo e il segno determina una luce argentata simile all’incisione del niello. Luce e mistero, in una sottilissima variazione della contemplazione e dell’infinito della pittura romantica: quasi un omaggio alle Rocce di Rütgen di Caspar David Friedric. De Dominicis non evade, cambia rotta, trova un’immagine inedita dentro e attraverso il disegno; e l’immagine s’impone nello spazio, lo determina e lo deforma. L’intera sua opera è come magia che stupisce, rapisce, stordisce fino al punto di sostituirsi alla realtà stessa. Qui sta il mistero dell’arte, nella sua forza di sostituirsi alla vita. Raramente un artista contemporaneo ha espresso con le immagini un pensiero così forte. De Dominicis era rigoroso e radicale, ma non rinunciava al paradosso, non assumeva atteggiamenti, prediligeva l’ironia, il divertimento nella vita e nel dialogo. Il luogo del pensiero era l’opera, superamento individuale, prima stilema che stile, che esce insieme dalla mente e dalla mano.
Vittorio Sgarbi