Nel Novecento si è verificato il paradosso per cui molta arte, quella maggiormente considerata dalla critica dominante, ha preferito limitare le proprie possibilità di diffusione, per rivolgersi a un pubblico di addetti ai lavori. Molta arte, abbiamo detto, ma certamente non quella di Pietro Annigoni (Milano, 7 giugno 1910 – Firenze, 28 ottobre 1988), pittore che dipingeva per tanti, e in tanti riuscivano a riconoscersi nel suo modo di concepire l’arte. In un’ideale classifica della popolarità degli artisti italiani nel periodo compreso tra gli anni cinquanta e settanta, Annigoni sarebbe stato secondo forse solo a De Chirico. Eppure in quegli anni, una gran parte della critica dominante, quella iper-idealista, pregiudiziale, ha negato la sua esistenza, ha come finto di non vederlo, tutta presa dall’esaltare “le magnifiche e progressive sorti” dell’Avanguardia.
Ma oggi è innegabile che egli sia stato una figura che ha giocato un ruolo di rilievo inconfutabile nel dibattito artistico seguito al 1945. Quegli anni non furono solo quelli della rottura all’interno del versante comunista fra gli artisti astrattisti, promossi in modo decisivo da Lionello Venturi attraverso il “Gruppo degli Otto”, e i realisti di Togliatti, Guttuso e Pizzinato. Quegli anni videro in prima linea anche un importante fronte “anti-modernista”, che nelle posizioni assunte da De Chirico fin dagli anni trenta, ossia nella difesa del mestiere e della tradizione italiana, trovava un preciso punto di riferimento. Di quell’anti-modernismo, Pietro Annigoni è stato il primo fondamentale esponente.
L’Italia artistica uscita dalla guerra soffriva di terribili complessi di colpa e d’inferiorità; complessi che, invece, pittori come De Chirico e Annigoni non avvertivano affatto, ritenendo piuttosto che l’istituzione di un sano rapporto con la grande tradizione potesse essere ancora la migliore forma di modernità. Annigoni aveva imparato il sublime mestiere dai fiorentini cinquecenteschi, quello che in seguito esibirà nei ritratti dei “grandi del mondo” in stile nouveau pompier, cui dovrà molta della sua popolarità; ma era anche un artista capace d’innestare alle proprie forme, impeccabilmente classiche, sottili vibrazioni, improvvisi irrobustimenti del tratto, imprevedibili bagliori di una sensibilità non olimpicamente distaccata dal mondo, bensì modernamente inquieta. Lo stesso Annigoni ammetteva questa sua doppia natura, affermando di guardare a due modelli artistici, uno supremo e assoluto, l’altro più corrosivo e viscerale: “ in cielo Fidia e in terra Magnasco”. Un riferimento raro e prezioso quello a Magnasco. Questa era la modernità intesa da Annigoni: il tentativo d’essere al passo con il proprio tempo, rifacendosi alla lezione dei maestri italiani che di tale tempo avevano intuito la sensibilità artistica. È noto che spesso Annigoni abbia peccato di “eccessivo mestiere”, identificando la pittura col puro esibizionismo virtuosistico. Ma nei disegni, nei bozzetti preparatori e negli acquerelli, Annigoni riesce a recuperare una vena espressiva meno convenzionale, non di rado più intima e sentita, dove l’aurea matrice cinquecentesca si carica di quelle intensità settecentesche che ancora dicono tanto all’occhio dell’uomo moderno. È questo l’Annigoni per il quale il celestiale Fidia si sporca volentieri le mani con il terrestre Magnasco.