Priapo è figlio di Dionisio ed Afrodite. Era, gelosa del rapporto incestuoso tra i due dei, usa Priapo per mettere in atto la sua vendetta, dotando il giovane di enormi organi genitali e rendendolo, in questo modo, deforme. Afrodite – nel timore di esser messa in ridicolo – abbandona il figlio sulle regioni rivierasche dell’Ellesponto. In questi luoghi Priapo verrà venerato in virtù di dio della fecondità.
Questo è il racconto, in breve, della storia di una delle divinità più celebri e ricorrenti nella letteratura e nelle arti figurative. Il fallo, d’altronde, da che mondo e mondo, è sempre stato simbolo di fecondità per tante culture: lo troviamo spesso raffigurato non sono nei lupanari ma anche in luoghi di culto, quali ad esempio le chiese cristiane: angeli e putti che fluttuano tra le nuvole con gli organi genitali scoperti e, non di rado, in erezione.
Eppure, il possedere un membro sessuale eccessivamente grande determina l’allontanamento di Priapo dalla madre: ma ciò che alla dea appare uno sgradevole sgarbo – fonte di vergogna – , agli occhi di molti altri risulta essere una caratteristica più che positiva. Non pochi sono gli uomini che vantano le loro “notevoli” doti, riposte con orgoglio dentro i pantaloni.
Questo racconto mitologico, tuttavia, ci trasmette un’informazione importante: una dea, abituata alla promiscuità, coinvolta come tutti gli altri dei in situazioni di sesso facile e senza scrupoli, in orge e di chi più ne ha più ne metta, mostra un atteggiamento di vergogna nei confronti degli sproporzionati organi genitali del figlio. Vi è, dunque, un senso di pudore legato alla sfera sessuale.
Tale pudore non lo ritroviamo, sicuramente, negli incensurati versi che compongono le Canzonette Priapee di Gian Piero Bona (Carignano, 8 novembre 1926), poeta e scrittore omosessuale del Novecento, esordiente in quegli anni ’50 in cui vedevano la luce le opere di alcuni dei suoi “colleghi” più celebri, tra i quali Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna e Vittorio Sereni.
Prima di introdurvi l’autore, però, ritengo sia opportuno e rispettoso – nei confronti dei più suscettibili, di quelli sentono come scandalosa la parola “cazzo” – precisare che le poesie di Bona sono costellate da un vocabolario diretto, da termini che disconoscono la censura, a ridosso del “volgare”.
I personaggi che compaiono all’interno della raccolta – la quale altro non è che un inno continuo al membro maschile e al sesso tra uomini – sono vari: dal soldato al marinaio, dal seminarista al carabiniere, dal doganiere al travestito, dal muratore al barbone, e così via. Tutti questi uomini sono accomunati dalla ricerca continua di situazioni erotiche e di amplessi sessuali o il più delle volte vi si ritrovano dentro, quasi casualmente, poiché le occasioni di incontro di rado vengono preventivate: una passeggiata sulla spiaggia o il passaggio alla dogana offrono loro l’opportunità inattesa di consumare un rapporto sessuale con uomini insospettabili – insospettabili nella loro omosessualità, s’intende.
I luoghi in cui gli amplessi vengono “inscenati” dal poeta sono spesso quelli del cosiddetto “battuage”. Battuage è il falso francesismo – probabilmente coniato dagli stessi ambienti gay – con il quale si designano, per l’appunto, questi luoghi di incontro: parchi, vespasiani, spiagge, parcheggi e cinema. Inutile sottolineare il fatto che il più delle volte tali incontri avvengono col calar del sole, di nascosto, lontano dagli occhi degli altri. La notte, dunque, diventa la “religione che splende chiara” sugli incontri di tali amanti occasionali:
Belle le sere
in cui i ragazzi pisciano alle stelle.
Sembrano alberi col potere
della grazia e così umani
quando si guardano il fiore tra le mani.
La notte allora è religione
che splenda chiara sul garzone
che la fotte.
La natura di questo scenario “en plein air” compartecipa all’atto sessuale, divenendone quasi protagonista: i ragazzi sembrano alberi, possenti e aggraziati, e il loro membro sessuale è l’equivalente di un “fiore tra le mani”.
Questi versi portano alla luce un aspetto ricorrente nella produzione poetica del Bona: ciò che è potenzialmente volgare si trasforma in qualcosa di “alto” e “sublime”, pari al cielo o al mare, alle montagne o alla luna, dando così vita ad un linguaggio doppio in cui l’aulico e il plebeo si fondono armoniosamente per “raccontare” della natura degli uomini, del loro esser “fatti di carne” ancor prima che di spirito.
Di lì, il celebre Cogito ergo sum cartesiano che subisce un’inversione: la prova tangibile dell’esistenza dell’uomo non è data dal pensiero ma dal suo stesso corpo, la cui vita si manifesta, anche, nel defecare degli esseri umani:
«Cago dunque sono»
Cartesio ho visto citato
in una penosa latrina.
Oh logica latina!
Il pensare è deiezione.
Ha scritto su questa prigione
un autista o un filosofo celeste?
«Essere» è fuori dalle teste
e dai culi. Io perciò divago
e scrivo «Mangio dunque cago»
La scritta lasciata in un bagno pubblico da un potenziale autista che si improvvisa “filosofo celeste” offre al poeta un’opportunità di riflessione sull’ “essere”; la risposta all’antichissimo quesito filosofico sfugge alla natura umana, la quale può solo attenersi alla tangibilità del reale. Bona, dunque, ribalta magistralmente il detto cartesiano, riformulandolo in una chiave più “terrena”: “mangio dunque cago”.
Anche le idee, come i pensieri, vengono partorite da un particolare “rumore”:
[…]Nel culo solo un rumore
dà rilievo a un’idea
L’impossibilità di dar una risposta al quesito sull’”essere” confluisce nell’incognita del “chi sono”; in L’altro marinaio di Coleridge il personaggio ha un’unica certezza, ovvero quella di essere omosessuale:
Non so chi sono
ma so che dopo un fortunale
il mare è omosessuale
Non so dove ne andrò
ma so se non morrò
che navigare è omosessuale
Non so perchè son nato
ma so che se salpato
l’ignoto è omosessuale
Non so chi mai sarò
ma so su questa baleniera
che la preghiera è omosessuale
Non so chi è Dio
ma so che udendo il suo sciacquio
il marinaio è omosessuale
Io non sono omosessuale
sono un oceano di addio
perciò non sono io
Alla fine dei versi il dubbio investe pure la stessa identità sessuale: la mancata risposta fa dell’uomo un “oceano di addio”, addio alla possibilità di dare risposte certe; l’assenza di certezze annulla la sua stessa identità: “perciò io non sono io”.
Le Canzonette Priapee accolgono al loro interno i personaggi della letteratura del passato, i quali vengono “piegati” e “riadattati” a seconda delle esigenze poetiche del Bona: un meccanico nell’atto di masturbarsi offre una visione più angelica della Beatrice di Dante, un guardone spia l’erezione di un giovane attendendo che egli “apra la finestra” e si affacci come Giulietta faceva con Romeo, Eros altro non è che un ragazzetto rimorchiato alla stazione e le “vaghe stellette dell’Orsa” leopardiane splendono sul “bozzo” dei pantaloni di un capotreno.
Alla violenza verbale – se così possiamo definirla – data dell’impiego dei termini senza filtri usati dal poeta si contrappongono o vengono a sovrapporsi delle immagini di estrema dolcezza e di delicato impatto visivo: un ragazzo colto nel momento della defecazione sembra un “angelo cascato” (dal cielo), le mutande diventano un mare “di porpora” e il pene è una “rosa virile”:
Nelle mutande del mare è una porpora:
il cazzo è una tortora,
è un mollusco che ci pende
con grande coraggio.
La vita carnale è un ermetico saggio.
O rosa (rosa
virile s’intende)
fra le gambe ti portiamo
da secoli. Ma per cosa,
o fantastica rosa?
È chiaro l’intento provocatorio attuato dal poeta: una provocazione al falso perbenismo borghese. Del resto, qual miglior modo scuotere i suoi lettori più restii se non dimostrando al pubblico che persino una sveltina tra due uomini in un bagno pubblico possa esser degna della più alta poesia?