L’1 marzo dell’anno corrente Papa Benedetto XVI – dopo otto anni di Pontificato – rinuncia al suo “trono” di Papa, ed è subito boom mediatico: cattolici e laici, credenti e non credenti aprono un acceso dibattito intorno alla scelta compiuta dal Pontefice – il cui preavviso era stato dato qualche settimana prima – incappando, come accade spesso in questi casi, in un scissione populista tra “sostenitori” e “contrari”. Benedetto abdica a causa delle sue condizioni di salute precarie che non gli consentirebbero di esercitare appieno il “potere” spirituale e temporale. Questa è la motivazione ufficiale, eppure non tardano ad arrivare le congetture di coloro i quali ritengono che dietro l’addio del Capo della Chiesa ci siano ben altre ragioni. Lo Stato Pontificio, in effetti, quasi in perfetta linea con l’economia di buona parte del mondo, è attraversato da una crisi interna ed esterna che ne sta mettendo a repentaglio non solo alcuni dei fondamentali precetti ma – ancor peggio – la sua stessa immagine e credibilità: dopo i no frequenti dei cattolici ai pax, alle unioni di fatto, ai matrimoni omosessuali, all’eutanasia, ai rapporti sessuali prematrimoniali, all’utilizzo del preservativo nei paesi sia avanzati che sottosviluppati ( con le conseguenze gravose di nascite e di morti premature, a causa delle condizioni penose di estrema povertà e di mancata assistenza medica in cui vivono, ad esempio, gli uomini e le donne dell’Africa Sub-sahariana e Centrale ), la Chiesa si ritrova a fronteggiare un nemico ancor più insidioso, il cui verme nasce dalla sua stessa mela: gli scandali legati al Vaticano gravitano intorno al nodo infuocato della notizia dell’arresto del maggiordomo del Papa, accusato di aver dato alla stampa delle informazioni “segrete” sui rapporti interni ed esterni della Santa Sede e con la conseguenza gravosa di aver portato alla luce delle verità sconvenienti, quali le irregolarità nella gestione finanziaria delle casse dello Stato o le lotte di potere all’interno della Chiesa. Come se non bastasse, iniziano a circolare con maggior frequenza le voci presunte – la cui veridicità verrà appurata – su una chiesa che accoglie al suo interno un numero non esiguo di preti pedofili. Si fa necessaria, dunque, un’inversione di marcia, un vero e proprio “cambio di politica” affinché questa barca secolare non affondi del tutto: bisogna ritornare all’ordine, magari a quello francescano: il successore di Benedetto XVI sceglie il nome di Papa Francesco, rifacendosi alla figura di Francesco d’Assisi, il celeberrimo eversivo santo medievale che aveva lottato contro i costumi corrotti della Chiesa, rinunciando alle sue ricchezze per abbracciare una vita all’insegna della povertà e della carità verso i più bisognosi . Il nuovo slogan di Città del Vaticano? “Poveri fuori e ricchi dentro”. Nonostante l’inclinazione moderatrice del novello Capo della Chiesa e malgrado il suo invito ai colleghi sacerdoti a rinunciare alle tentazioni superflue dell’oro e delle ricchezze, le parrocchie fanno fatica a riempirsi durante le omelie della domenica. Bisognerebbe domandarsi il perché, senza scadere in un facile anticlericalismo o in uno smoderato fanatismo.
Ci sono sicuramente delle incongruenze palesi tra quanto i testi Sacri professano e il modo in cui i fautori della “parola di Cristo” li mettono in atto: se Gesù tende la mano all’adultera Maddalena, invitando i lapidatori – peccatori come tutti gli uomini – a “scagliare la prima pietra” e incoraggiando la donna a cambiare vita ( senza obbligarla a farlo! ), perchè i sacerdoti non potrebbero fare altrettanto, tendendo la loro mano ad un uomo che ha appena divorziato dalla moglie per il bene dei figli, costretti quotidianamente a subire le liti e le discussioni feroci tra i due coniugi ormai disinnamorati? Perchè le campane delle cattedrali non risuonano per richiamare al loro interno tutte quelle donne che hanno dovuto operare la scelta dolorosa di un aborto, coscienti – razionalmente – che se avessero portato avanti la gravidanza non avrebbero potuto garantire al loro figlio un futuro degno di esser tale? Crediamo forse che Dio, dall’alto dei cieli, abbia chiuso a tutte queste persone le sue porte perennemente aperte, rinnegando loro il suo abbraccio paterno, onnipresente e comprensivo?
Eppure i no della Chiesa Cattolica troppo spesso hanno emesso rintocchi più forti di quelli delle campane, con la conseguenza negativa di un abbandono delle chiese da parte dei fedeli.
La chiesa è una casa, la casa di Dio, ed è perciò la casa di tutti, poiché Dio tutti accoglie. La casa è un nido, una protezione: di certo non ci aspetteremmo di esser buttati fuori di casa solo per aver commesso uno sbaglio o per aver operato una scelta non condivisa dai nostri cari. Ci aspettiamo sempre che ci sia qualcuno – nelle nostre case – pronto ad attendere che noi ritorniamo, a braccia aperte: la parabola del figliol prodigo docet.
Tra tutti questi scandali, tra abiti di porpora ed anelli di rubino, tra traditori e traditi, i più scettici si pongono una domanda: dov’è finito Dio?
Qualcuno parla di una sua presunta morte, qualcun altro – in preda allo sconforto, usando una buona dose d’ironia che non di rado sfocia in una volgare bestemmia – suppone che sia partito per una vacanza o che abbia deciso di abdicare dagli uomini.
Ma capita poi di aprire gli occhi e di ritrovarsi davanti la magnificenza di un Giudizio Universale impresso sull’abside della Sistina o dinnanzi l’occhio sempre vigile di un Cristo Pantocreatore sorto dalla miracolosa unione di piccoli tasselli di mosaico che decorano il superbo duomo di Monreale e un brivido corre lungo i nostri corpi. E quando i megafoni dei pulpiti si spengono una voce ci parla e ci fa vibrare: Dio è quella voce che con difficoltà riusciamo ad ascoltare, poiché assorditi dal frastuono creato dalle istituzioni e dagli esseri umani che ci fuorviano da quanto sta vicino a noi, più vicino di quanto possiamo credere o pensare: Dio ( cattolico o non ) è la voce dell’anima che portiamo dentro, è la nostra stessa voce. Che chiamiamo dio come anima, o anima come pensiero, o pensiero come coscienza, e così via, la meta ultima e l’approdo finale di questo navigare dentro ciascuno di noi è sempre e comunque l’amore, e l’arte ne è testimonianza.
Juan de la Cruz, Giovanni della Croce (Fontiveros, 24 giugno 1542 – Úbeda, 14 dicembre 1591), – è Doctor Mysticus, teologo e poeta ancor prima che sacerdote. Nato nei pressi di Àvila, in Castiglia, si laurea in teologia e filosofia presso l’università di Salamanca. Nel 1577, reputato responsabile di un incidente accaduto nel monastero di Àvila, viene incarcerato e lì subisce maltrattamenti e torture fisiche e psicologiche che ne metteranno alla prova lo spirito per più di otto mesi. Il frutto di tale esperienza sarà il “Cantico Spirituale”, l’opera che più contribuirà a fare di Juan de la Cruz uno dei maggiori poeti di lingua spagnola.
Il “Cantico” è un dialogo poetico tra due personaggi – La Sposa e Lo Sposo – i quali incarnano la simbologia dell’Anima e di Dio. La sposa geme, alla ricerca del suo Amato smarrito:
Dove ti nascondesti,
Amato, e mi lasciasti gemente?
Come il cervo fuggisti,
dopo avermi ferito;
uscii dietro di te gridando, e te ne eri andato.
Lo sposo, dunque, infligge la sua “ferita” d’amore sull’amata e subito dopo fugge via. Ciononostante la sposa non desiste dalla ricerca della sua metà perduta, sfoggiando un coraggio d’altri tempi capace di annientare ogni timore, una forza che le farà scalare le montagne e le farà discendere i pendii. La donna è tanto radicata nel suo proposito, nella sua “fede”, da non lasciarsi cadere nella tentazione di “cogliere i fiori”, gli oggetti materiali:
In cerca dei miei amori,
andrò per questi monti e questi pendii;
non coglierò i fiori,
né temerò le fiere,
e supererò i forti e le frontiere.
Non vi è frontiera o limite alcuno, dunque, che possa ostacolare questa ricerca affannosa dell’anima. I paesaggi, con la bellezza della natura, feriscono la vista della Sposa, la quale rivede in essi l’impronta della meraviglia lasciata dallo Sposo al suo passaggio, poiché essi possono solo fungere da “messaggeri” di quel Dio che li ha generati, senza, però, restituire alla Sposa quanto essa desidera: un amante concreto, “consegnato in verità”:
Ah, chi potrà sanarmi!
Finisci di consegnarti ormai in verità;
non inviarmi più
da oggi, messaggeri,
poiché non sanno dirmi ciò che voglio.
Un anima senza Dio è una vita vissuta al di fuori di sè, una vita non vissuta dunque, un’esistenza poco salda, in punto di morire:
Ma come perseveri,
oh vita!, non vivendo dove vivi […]
Il desiderio viscerale di rincontrare lo Sposo perduto si dispiega in un’appassionata e passionale dichiarazione d’amore e di fedeltà, in un’invocazione all’Amato affinché “estingua” quei dolori che egli stesso ha generato, con la sua assenza:
Estingui i miei dolori,
poiché nessuno è capace di dissiparli;
e ti vedano gli occhi miei,
poiché sei la loro luce,
e solo per te li voglio conservare.
La Sposa invita l’Amato a mostrarsi nella sua bellezza “mortale” ricordando che la sofferenza d’amore può essere curata solo dalla “figura” tangibile dello Sposo amato, il quale diviene veleno ed antidoto per il dolore di lei:
Scopri la tua presenza,
e mi uccidan la tua vista e la tua bellezza;
bada che l’afflizione
d’amore non si cura
se non con la presenza e la figura.
Lungo tutto un percorso, fatto di montagne e valli, letti fioriti, greggi da custodire, smeraldi e freschi mattini, la “colombella”- “tortorella”, la Sposa, riesce a fare della sua solitudine – inizialmente sofferta – lo spazio entro il quale accogliere la voce di Dio, suo “compagno ritrovato”:
La bianca colombella
all’arca con il ramo è tornata;
e già la tortorella
il compagno desiderato
per le verdi vallate ha ritrovato.
.
In solitudine viveva,
e in solitudine ha posto ormai il suo nido;
e in solitudine la guida
da solo il suo Diletto,
anch’egli in solitudine di amore ferito.
La solitudine di un amore ferito permette agli amanti di trovare la giusta dimensione per ascoltare la voce che ciascuno di noi porta dentro: quella voce, ossia l’anima, che ha bisogno di raggiungere le vette più alte per potersi definire appagata e che trova la sua completezza e il suo fine ultimo nell’amore.
Faremmo bene a spegnere la televisione di tanto in tanto provando ad ascoltare ciò che la nostra anima ci sta comunicando. E se per caso dovessimo trovarci ad assistere ad un sermone con cui ci troviamo in disaccordo, non imputiamo come colpevole un credo o una fede necessari alla sopravvivenza degli uomini: se non c’è fede non c’è speranza. L’amore è anch’esso fede e speranza al contempo. Se dovessimo ascoltare qualcuno che crediamo predichi bene e razzoli male, usciamo fuori dalla chiesa e attendiamo che essa si svuoti per rientravi: l’occhio caritatevole e ammiccante del Cristo sull’altare ci comunicherà – suo malgrado – che egli ha la sua casa dentro di noi, nelle nostre anime perdutamente innamorate della vita e del prossimo. Così come egli stesso ci ha insegnato.