CARLO GUARIENTI, DI VITTORIO SGARBI

Tra gli artisti contemporanei, ce ne sono alcuni straordinari per qualità, per capacità tecnica, per grande evidenza visiva, fautori di un realismo basato sul pensiero, su un concetto astratto che porta all’immagine, come la sensazione di un altrove: non quindi un realismo meccanico, ripetitivo, mimetico, bensì un realismo essenziale. Tra questi artisti, attivi negli anni sessanta e settanta, artisti per lungo tempo emarginati e che hanno tenacemente, ostinatamente continuato a dipingere anche nell’assoluta indifferenza della critica, spicca Carlo Guarienti (Sant’Antonio di Treviso, 28 ottobre 1923). Guarienti è un pittore difficile, tentato da mille stimoli, che esordisce realista inquieto nel 1949, facendo parte del gruppo “I pittori della realtà”. Il suo momento più espressivo è negli anni settanta e ottanta, quando diventa pittore di geometrie, geometrie mentali, che sono anche dei solidi, il cubo, la sfera, la piramide, ma sempre con riferimento a una realtà sensibile concreta, un sogno che non è mai indistinto, confuso con elementi di mostruosità che contraddicano l’esperienza razionale. Nella sua vicenda umana era intervenuta una tragedia, la morte di una figlia, e la sua opera, che soprattutto nella fase surrealista era stata articolata con figurazioni magiche e fantasie a popolare spazi rigorosi, neorinascimentali, con un richiamo costante alla grande tradizione pittorica italiana, improvvisamente si disanima. Non vi appaiono più figure, esseri umani, bensì solidi, linee, numeri, segnali stradali, forse per un richiamo alla Pop Art e quindi alla contemporaneità, che sembra entrare in questi spazi algidi. Insomma un gelo, una freddezza, una lucidità che sono il segnale di un dolore che non si può riparare. Nelle opere successive, si vede come rinascere una sensazione di vita, un alito, qualcosa che libera l’immaginazione di Guarienti da quest’ossessione geometrica, da questa freddezza; piccole vedute di Roma in una luce gelata, notturna, richiami a un’immagine visibile, esterna della città, che fanno pensare a una ripresa di vitalità. Ma nelle sue ultime opere, sembra che una polvere o un velo scenda su nature morte, geometrie, solidi, persino sulla riapparizione improvvisa dell’essere umano, lui stesso nudo: ossessivamente il pittore ritrae se stesso come decomposto, come fosse diventato terra, con una pittura rugginosa, una superficie che vela il colore fino a farlo diventare una notte senza fine, senza possibilità di penetrazione neanche per lo sguardo. È come se il suo modo di vedere il mondo fosse filtrato da una condizione di totale annichilimento, in cui però c’è una luce assoluta, essenziale, come la luce dell’aldilà, il pensiero di un’idea che è più forte della realtà e che informa di sé la realtà. Nelle opere di Guarienti troviamo quello che la pittura metafisica aveva voluto rappresentare, fin dai propri inizi, con la ricerca di De Chirico: una dimensione essenziale, totalmente purificata, di puro pensiero, che viene a distillare e quindi a distanziare l’emotività. Pittura puramente mentale.

Vittorio Sgarbi