Alla domanda «Pronto, è Ottavio Missoni?» la risposta, detta con la cadenza veneta che non l’ha mai lasciato nonostante il fatto che ormai da tempo immemorabile viva a Sumirago, in provincia di Varese, è: «Sì, son mi». In questa risposta c’è tutto Ottavio, detto Tai, Missoni (Ragusa, 11 febbraio 1921 – Sumirago, 9 maggio 2013). Perché «Sì, son mi» è anche l’anagramma del suo cognome e questo la dice lunga sulla sua capacità di saper prendere in giro se stesso e gli altri, che è una forma di intelligenza sublime. E poi la cadenza veneta richiama subito alla mente ricordi di persone che sanno lavorare e impegnarsi, ma che nello stesso tempo sanno anche dare il giusto peso al divertimento, allo stare con gli altri, alla «ciacola», che è il gusto del chiacchierare alla ricerca di un contatto umano. E allora via con le domande:
«Come al solito: figli, nipoti, parenti per casa… C’è di buono che anche i festeggiamenti finiscono, però è bello vedere tanta gente che ti fa gli auguri. Per due motivi: primo perché vuol dire che sicuramente sei ancora vivo, secondo che non hai rotto le scatole a nessuno».
L’anno scorso lei ha fatto 90, l’Unità d’Italia150 anni per l’Unità d’Italia: giusto festeggiare anche quella data?
«Certo che sì: l’Italia è il mio orgoglio. E poi a me fa subito venire in mente mio padre: la mia famiglia è originaria di Ragusa – che in croato si chiama Dubrovnik- e nel 1919, quando dopo la Prima guerra mondiale, la città entrò a far parte del regno di Jugoslavia, mio padre decise di restare lì, ma decise anche di mantenere il passaporto italiano. E quindi posso dire di essermi e di sentirmi italiano due volte: per nascita e per scelta familiare».
Ecco, appunto: è stato un buon papà?
«Credo di sì, anche se la pagella non devo darmela io… Io ho cercato di non rompere troppo le scatole, di dare però una buona educazione e di invitarli a leggere: lasciavo libri in ogni angolo della casa perché li prendessero in mano. Perché leggere allarga la mente, ti fa scoprire gli altri e te stesso. Per questo, ancora oggi, io leggo, e rileggo, moltissimo. Perché a vent’anni un libro ti sembra una cosa, poi a 40 un’altra e a 90 un’altra ancora. Fantastico, no? Un libro è come l’amicizia: ti costa poco e ti può dare tantissimo».
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E non ha mai dato consigli alla sua prole?
«Sì, ma senza esagerare, perché i troppi consigli a volte affogano. Per esempio, adesso lavorano tutti e tre nell’azienda di famiglia e questo mi piace, ma è stata una scelta loro, io gli avevo prospettato la possibilità di fare tanti altri lavori». .
Più facile essere papà o nonno?
«Certo fare il nonno è una cosa gradevole ed è un ruolo che mi piace molto. Lo posso anche consigliare a tutti».
Ma lei da giovane era considerato un Adone, un tipo dalla conquista facile. Lucia Bosè, per esempio…
«Lei allora faceva la commessa in una pasticceria nel centro di Milano e diceva in giro che io ero il suo angelo».
Solo amicizia?
«E’ passato tanto tempo, non mi ricordo bene. E poi gli angeli sono creature spirituali, no?».
Passiamo ad altro… Lo sport è stato importante nella sua vita, vero?
«Certo, peccato che dai 21 ai 26 anni non abbia potuto gareggiare per colpa della guerra. E gli ultimi quattro anni li passai da prigioniero in Egitto. Per carità, gli inglesi mi trattarono bene, ma non potevo certo allenarmi. Comunque alle Olimpiadi del 1948, a Londra, riuscii ad arrivare in finale. E allora le Olimpiadi erano una vera festa, mica come adesso che le hanno fatte diventare un carrozzone enorme in cui ci hanno infilato troppe discipline, come l’hockey su prato, il tiro con l’arco, il sollevamento pesi femminile. Allora le corsie per la gara dei 400 metri a ostacoli erano solo sei e io, nella finale, arrivai sesto. Ricordo che mio padre, quando lo sentii al telefono, mi disse: “Peccato, sei arrivato ultimo”. Vero, ma quello fu una specie di miracolo sportivo e mi piace ricordarlo».
Un altro miracolo, la sua azienda…
«No, perché quella è stata frutto del lavoro mio, ma soprattutto di Rosita. Tutti pensano che quando dico questa cosa lo faccia per galanteria, ma è la verità. Quando mi hanno fatto cavaliere del lavoro ho subito detto che avrebbero dovuto dare a lei l’onorificenza».
Lei si ritiene una persona fortunata?
«Credo che sia giusto che risponda di sì, anche se la fortuna va aiutata. Le faccio un esempio: io non ho mai perso al gioco, ma soprattutto perché non ho mai giocato. Chiaro il concetto, no?».
Cos’è la vecchiaia per Ottavio Missoni?
«Diciamo che la vecchiaia è una brutta malattia che si può curare ma non guarire. Ecco, io cerco di curarla e finché la saluta si mantiene è bello vivere questa stagione che è gradevole perché ti permette di uscire dalla competizione, di arrabbiarti di meno. Peccato che questa stagione sai già che durerà poco, anche se non sai quanto. Quindi non vale la pena star lì a pensarci troppo».
E alla fine della vita ci pensa mai?
«Usiamo le parole giuste al posto giusto: stiamo parlando della morte, vero? Vista la mia età, ho avuto tanti amici che hanno raggiunto quel traguardo: tanti se ne sono andati incazzati, tanti altri sereni. No, io non ci penso alla morte, proprio perché ho la salute, soprattutto quella mentale. E poi ho fatto mio un detto spagnolo che dice: “Si tienes el remedio, no te preocupes. Si no tienes el remedio, no te preocupes”. E io perciò non mi preoccupo».
Alfredo Rossi