Arnaldo Miccoli, pugliese di nascita e americano di adozione, fu allievo di Franco Gentilini. La sua figurazione, lontana dalla banalità del virtuosismo realistico fine a se stesso, si colloca nel solco di una tradizione italiana rinnovata e vivificata, che equilibra ragione e sentimento, vis espressiva e rigore geometrico, gioco e ricerca, reinventando un universo che riacquista il sapore acre del primitivo, senza rinnegare il fondo d’intellettualismo moderno a cui si affida l’invenzione delle sue apparenze; si offre, infine, come “distillato” lirico del reale, sfociando inevitabilmente nel terreno dell’immaginazione fantastica e proponendo una riflessione più generale sul senso ultimo delle cose.
Gli è bastato guardarsi intorno, gli è bastato odorare la terra fragrante e l’aria satura del suo Salento, registrare le facce e i costumi di chi in esso abita da tempo immemorabile, per verificare come queste presenze ataviche determinassero in modo ineludibile il suo immaginario, e l’indole primitivista è sorta spontanea. Ed è quasi sorprendente osservare come Miccoli riesca a equilibrare le diverse inclinazioni stilistiche che, di volta in volta, ha attraversato e confrontato con il proprio Primitivismo originario. Si noti, per esempio, come l’innato spirito mediterraneo delle figure di Miccoli, in maggioranza ampie e statiche matrone arcaiche, pre-classiche, venga spesso calibrato da un’improvvisa disposizione per il grottesco, da un demoniaco desiderio di deformazione fisica, che rimanda storicamente alla tradizione nordica, alla Germania di Die Brücke e della Neue Sachlichkeit. Allo stesso modo, le atmosfere d’infanzia del mondo che le immagini di Miccoli riescono a rievocare sono capaci anche di calarsi nell’attualità più aggiornata, quella made in U.S.A, che l’artista pugliese conosce così bene per averla sperimentata direttamente. Le matrone mediterranee, arcaiche e statiche, dunque, cambiano veste e diventano parenti stretti delle modernissime virago di Allen Jones, simboli pop di una sessualità dirompente che minaccia la centralità del potere maschile e alterna disinvoltamente il sadismo al masochismo. È questa la luce giusta che permette d’inquadrare il Primitivismo di Miccoli, configurandolo come una vera e propria visione del mondo. Esiste nell’uomo, cioè, una costante brutalità, un inesauribile “richiamo della foresta” che supera il tempo e non conosce fratture tra passato e presente. L’anti-classicismo di Miccoli, la sua ostilità a ogni idealizzazione fisica dell’uomo è, allora, lo specchio fantastico di una nozione dell’esistenza che ci identifica tutti come esseri impuri, soggetti predisposti geneticamente al brutto e al male, veri e propri mostri. Ci accorgiamo, però, che la mostruosità è in fondo l’anima più autentica dell’umanità, il suo principale motivo d’identità in un universo che sembra essere stato predisposto non da una Grande Ragione ma da un Grande Inconscio. Quello stesso inconscio che imperversa nelle fantasie di Miccoli e di noi tutti, che fa produrre a noi, che siamo mostri, altri mostri a immagine e somiglianza delle nostre paure, dei nostri timori primordiali, delle nostre voglie insane. Un modo come un altro per esorcizzare le minacce di una natura leopardianamente matrigna, come facevano gli ignoti pittori primitivi delle grotte di Altamira.