ARTEMISIA GENTILESCHI, L’ICONA DEL FEMMINISMO MODERNO

Negli anni settanta del novecento, per la notorietà assunta dal processo per stupro subito, diventò un simbolo del femminismo internazionale. La sua immagine di donna impegnata rappresentò e rappresenta tutt’ora l’immagine d’indipendenza contro le difficoltà e pregiudizi incontrati nella sua vita travagliata.
Artemisia Lomi Gentileschi (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, 14 giugno 1653), importante pittrice italiana di scuola caravaggesca, ha ereditato dal padre il talento artistico, influenzata poi fortemente dalle opere del Michelangelo Merisi detto Caravaggio, cariche di effetti teatrali.
Era primogenita del pittore toscano Orazio Gentileschi (Pisa, 9 luglio 1563 – Londra, 11 settembre 1639)
, esponente di primo piano del caravaggismo di Roma, e di Prudenzia Montone, che morì prematuramente. Suo padre aveva variato a Roma il cognome in “Gentileschi”, invece che “Lomi”, per distinguersi dal fratellastro Aurelio, anche lui pittore. Artemisia, assieme ai fratelli, ebbe il suo apprendistato artistico presso la bottega del padre, imparando il disegno, il modo di impastare i colori e di dar lucentezza ai dipinti, come da testimonianza di un apprendista del padre Orazio, Niccolò Bedino, che al processo per lo stupro di Artemisia testimoniò che la ragazza aveva dimostrato queste abilità già nel 1609.
Dal famoso processo emerse anche che i primi esercizi di pittura della giovane ebbero come soggetto la sua amica Tuzia e il figlio. Tuzia, vicina di casa dei Gentileschi, aveva cominciato a frequentare nel 1611 la casa Gentileschi; quando Orazio un giorno l’aveva trovata in casa sua a intrattenere la figlia e, compiaciuto di questa compagnia femminile, l’aveva invitata con la sua famiglia ad abitare al secondo piano della sua casa in via della Croce. Da quel momento Tuzia divenne inquilina di Gentileschi e compagna di Artemisia. La giovane Gentileschi beneficiava di un talento molto precoce, nutrito ed stimolato dall’ambiente romano e dal fermento artistico alimentato da altri pittori, amici e colleghi del padre. Viveva un ambiente naturale legato all’arte, la sinergia tra gli artisti di Roma, in un quartiere di pittori e artigiani. Era il periodo in cui Caravaggio lavorava nella Basilica di Santa Maria del Popolo e nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, Guido Reni e Domenichino nel cantiere a S.Gregorio Magno, ed i Carracci stavano terminando gli affreschi della Galleria Farnese.
Artemisia conobbe personalmente Caravaggio, amico del padre Orazio. Un amico così intimo da prendere spesso in prestito gli strumenti dalla bottega di Orazio, coinvolgendolo nelle accuse di diffamazione fatte a Caravaggio dal pittore Giovanni Baglione. L’influenza di Caravaggio fu molto forte su Artemisia, pittrice donna, a cui veniva negata la scuole di formazione e la possibilità di crearsi un proprio ruolo sociale. A quei tempi, una donna non poteva essere indipendente e realizzarsi come lavoratrice; il lavoro femminile non era riconosciuto alla luce del sole, ma “clandestinamente”, come lo testimoniano i registri delle tasse e i censimenti.
Tuttavia Artemisia era privilegiata per l’appoggio del padre; lo testimonia una lettera datata il 6 luglio 1612 del padre indirizzata alla granduchessa di Toscana Cristina di Lorena, nella quale traspare l’impegno del padre Orazio nel promuovere l’attività artistica della figlia. Nella lettera Artemisia venne descritta con parole di elogio: Orazio affermò che in tre anni ella aveva raggiunto una competenza pari agli artisti maturi: “questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere.”
La prima opera attribuita alla diciassettenne Artemisia, con sospettati aiuti da parte del padre, è la “Susanna e i vecchioni”  del 1610. In questa tela, Artemisia, oltre lo stile caravaggesco, si mostra influenzata dalla scuola bolognese, precisamnete da Annibale Carracci. La critica non ha potuto non constatare la forte pressione esercitata dai due vecchioni su Susanna, ricordando il rapporto di Artemisia con il padre e con Agostino Tassi (Ponzano Romano, 22 gennaio 1580 – Roma, 12 marzo 1644), il pittore che nel maggio 1611 la stuprò: infatti, uno dei due Vecchioni è particolarmente giovane e presenta una barba nera come quella di Tassi, mentre l’altro Vecchione assomiglia al padre, ritratto nell’incisione di Antoon van Dyck. Vi é l’ipotesi che la Gentileschi avesse volutamente retrodatato il quadro al 1610, un anno prima dello stupro, per alludere all’inizio dell’oppressione subita da figure troppo ingombranti per la sua esistenza di donna e di pittrice. 
Durante il processo, Agostino Tassi, il suo stupratore, affermò che la pittrice si era spesso lamentata con lui della morbosità del padre, svelandogli che la trattava come fosse sua moglie. La datazione dell’opera in passato è stato oggetto di molte controversie a causa di fonti discordanti sulla data di nascita di Artemisia: si è scoperto recentemente che Orazio Gentileschi, per impietosire il giudice al processo, mentì sull’età di Artemisia al momento della violenza, attribuendole appena quindici anni, dichiarando che lei fosse nata nel 1597. Al tempo dello stupro, Agostino Tassi, maestro di prospettiva, lavorava assieme al padre sulla decorazione a fresco delle volte del Casino delle Muse nel Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma. Agostino si tratteneva spesso nella dimora dei Gentileschi dopo il lavoro; e fu proprio lo stesso Orazio che aveva chiesto ad Agostino di insegnare alla figlia lo studio della prospettiva. Sembra che il padre decise di denunciare Agostino Tassi dopo che egli non aveva potuto “rimediare” con un matrimonio riparatore, in quanto già sposato e con una relazione incestuosa con la sorella della moglie. Il processo si concluse con una lieve condanna di Agostino Tassi perché la Gentileschi dovette accettare di ritirare le accuse sotto minaccia di tortura, che consisteva nello schiacciamento dei pollici; danno che per una pittrice era gravissimo.
La testimonianza di Artemisia al processo, secondo le cronache dell’epoca fu: “Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”.
Dopo la fine del processo, Orazio combinò per Artemisia un matrimonio con Pierantonio Stiattesi, modesto artista fiorentino, che servì a darle uno status di sufficiente “onorabilità”. La cerimonia venne celebrata il 29 novembre 1612 e poco dopo i due si trasferirono a Firenze, dove ebbero quattro figli, di cui la sola figlia Prudenzia visse ed arrivò a maritarsi. L’abbandono di Roma per loro era inevitabile: Artemisia non aveva più il favore e i riconoscimenti a causa dello scandalo dello stupro, beffato anche da epitaffi crudelmente ironici alla sua morte.
Durante il suo soggiorno a Firenze, visse un lusinghiero successo. Nel 1616 venne accettata nell’Accademia delle Arti del Disegno, prima donna a godere di tale privilegio. Seppe tenere buoni rapporti con i più reputati artisti del tempo, come Cristofano Allori, e di saper conquistare i favori e la protezione di persone influenti come Granduca Cosimo II de’ Medici e della granduchessa-madre Cristina.
Dopo lo stupro, per un certo periodo la pittrice assunse il cognome Lomi, cognome originale del padre, senza però più tenere contatti con il padre. Fu in buoni rapporti con Galileo Galileigiunto a Firenze nel settembre 1610 su invito di Cosimo II, con il quale rimase in contatto epistolare successivamente. Tra i suoi estimatori ci fu anche Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote di Michelangelo.
Chi commissionava le sue tele doveva considerare la possibilità quasi certa di avere una immagine che ricordasse lei; infatti, le figure femminili dei dipinti Artemisia Gentileschi hanno i lineamenti della pittrice stessa, donna di straordinario fascino. 
Il successo e la sua femminilità, alimentarono, per tutta la sua vita, apprezzamenti e illazioni sulla sua vita privata. Nonostante il suo successo a Firenze, a causa di spese eccessive, sue e di suo marito, il periodo fiorentino fu segnato da problemi economici e tormentato dai creditori. Realtà che sommato alla non felice convivenza col marito, Artemisia decise nel 1621 di tornare a Roma definitivamente, l‘anno che coincide con quello della partenza del padre Orazio per Genova.
Così, Artemisia si stabilì a Roma come donna completamente indipendente, in grado di avere la sua casa e di crescere le proprie figlie. Oltre a Prudenzia, nata dalla sua unione con Pierantonio Stiattesi, nel 1627 ebbe un’altra figlia, che cercò, con scarso successo, di avviare alla pittura.
La Roma di quegli anni vedeva ancora ricca di presenza di pittori caravaggeschi, con evidenti assonanze, ad esempio, tra lo stile di Gentileschi e quello di Simon Vouet (Parigi, 9 gennaio 1590 – Parigi, 30 giugno 1649), già evidente, durante il pontificato di Urbano VIII, il crescente successo del classicismo della scuola bolognese o delle avventure barocche di Pietro da Cortona (Cortona, 1º novembre 1596 – Roma, 16 maggio 1669).
Artemisia dotata della giusta sensibilità nel cogliere le novità artistiche e la giusta determinazione per vivere la vita artistica di Roma, obbliettivo di tutti gli artisti Europei, entrò a far parte dell’Accademia dei Desiosi. Di questo periodo è anche l’amicizia con Cassiano dal Pozzo (Torino, 1588 – Roma, 22 ottobre 1657), un viaggiatore e collezionista d’arte italiano.
Tuttavia, nonostante la sua reputazione artistica, il suo soggiorno a Roma non fu così ricco di commesse come avrebbe desiderato. L’apprezzamento della sua pittura era limitato nelle sue capacità di ritrattista e alla sua abilità di mettere in scena le eroine bibliche. Non erano orientate a lei le ricche commesse dei cicli affrescati e delle grandi pale di altare della chiesa. Così, per mancanze di commesse, tra il 1627 e il 1630 si trasferì a Venezia.
Nel 1630 Artemisia si stabilì a Napoli, con la speranza di nuove e più ricche commissioni. Da non dimenticare che a Napoli erano già passati nomi come Caravaggio, Annibale Carracci, e vi lavoravano in quegli anni José de Ribera, Massimo Stanzione, e, a breve vi sarebbero approdati il Domenichino, Giovanni Lanfranco ed altri ancora. Il suo esordio artistico a Napoli è rappresentato forse dalla Annunciazione del Museo di Capodimonte.
Napoli fu per Artemisia una sorta di seconda patria nella quale curò la propria vita personale, maritando le sue due figlie. Ricevette attestati di grande stima, fu in buoni rapporti con il viceré Duca d’Alcalá, con rapporti di scambio alla pari con i maggiori artisti che vi erano presenti.
Per la prima volta, si trovò a dipingere tre tele per una chiesa, la cattedrale di Pozzuoli: San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, l’Adorazione dei Magi e Santi Procolo e Nicea.
Nel 1638, la Gentileschi raggiunse il padre a Londra, presso la corte di Carlo I, dove Orazio era diventato pittore di corte. Mentre, dopo tanto tempo, padre e figlia si ritrovarono legati da un rapporto di collaborazione artistica, nel 1939, Orazio inaspettatamente morì, assistito dalla figlia.
Carlo I, un collezionista fanatico, disposto a compromettere le finanze pubbliche pur di soddisfare i suoi desideri artistici, era incuriosito dalla fama di Artemisia, e la volle nella corte anche dopo suo padre. Così, l’Artemisia ebbe a Londra una sua attività autonoma, che continuò per un po’ di tempo anche dopo la morte del padre.
Nel 1642, la pittrice lasciò l’Inghilterra e, nel 1649, fu nuovamente a Napoli, in corrispondenza con il collezionista don Antonio Ruffo di Sicilia che fu mentore e buon committente in questo secondo periodo napoletano.
Artemisia Gentilesci morì  a Napoli il 14 giugni del 1653.

In un saggio del 1916 di Roberto Longhi, critico e storico d’arte, intitolato “Gentileschi padre e figlia” ha riportato all’attenzione della critica la statura artistica di Artemisia Gentileschi nell’ambito dei caravaggeschi nella prima metà del XVII secolo. Roberto Longhi scrisse su Artemisia: “l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità…”.
Nella lettura effettuata del dipinto più celebre di Artemisia, “Giuditta che decapita Oloferne” degli Uffizi, Longhi scriveva:
“Chi penserebbe infatti che sopra un lenzuolo studiato di candori e ombre diacce degne d’un Vermeer a grandezza naturale, dovesse avvenire un macello così brutale ed efferato […] Ma – vien voglia di dire – ma questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?” e aggiungeva: “[…] che qui non v’è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riescita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale! Incredibile vi dico! Eppoi date per carità alla Signora Schiattesi, questo è il nome coniugale di Artemisia, il tempo di scegliere l’elsa dello spadone che deve servire alla bisogna! Infine non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla? Pensiamo ad ogni modo che si tratta di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del ‘600 europeo, dopo Antoon Van Dyck” (Roberto Longhi, Gentileschi padre e figlia, in “L’Arte”, 1916)

Per una donna, in quell’epoca, dedicarsi alla pittura, come fece Artemisia Gentileschi, rappresentava una realtà non comune e difficile, ma non fu la prima: si possono citare, tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, Sofonisba Anguissola (Cremona ca. 1530 – Palermo ca. 1625) che fu chiamata in Spagna da Filippo II; Lavinia Fontana (Bologna, 1552 – Roma, 1614) che si recò a Roma su invito di papa Clemente VIII; Fede Galizia (Milano o Trento, 1578 – Milano 1630) che dipinse, tra l’altro, magnifiche nature morte e una bella Giuditta con la testa di Oloferne; Lucrina Fetti (Roma, 1600 ca. – Mantova, 1651) che seguì il fratello Domenico nella città dei Gonzaga.
La prima scrittrice che scrisse un romanzo attorno alla figura di Artemisia, fu Anna Banti, la moglie di Roberto Longhi, nel 1944, ma venne perduta durante la seconda guerra mondiale. Nel 1947, Anna Banti si pone nel suo nuovo romanzo in dialogo con la pittrice, in forma di “diario aperto”, in cui cerca, in parallelo al racconto dell’adolescenza e della maturità di Artemisia, di spiegare a sé stessa il fascino che ne subisce, e il bisogno che avverte di andare al di là, in un dialogo da donna a donna.
Nel 1999, 52 anni più tardi, la scrittrice francese Alexandra Lapierre descrive con un romanzo, il fascino enigmatico della vita di Artemisia, con uno studio scrupoloso della biografia e del contesto storico che le fa da sfondo. 
In Italia, recentemente, viene pubblicato il romanzo di Susan Vreeland “The Passion of Artemisa”, si pone nella scia della popolarità assunta da Artemisia in chiave femminista, alla sua figura, e sembra voler sfruttare il recente successo dei romanzi storici che prendono le mossa da un’opera d’arte e dal suo autore.


Arman Golapyan