Giovanni Agnelli (Torino il 12 marzo 1921 – Torino, Il 24 gennaio 2003), “l’Avvocato”, per molti anni il vero e proprio emblema del capitalismo italiano. I genitori lo chiamano con il nome del suo mitico nonno, il fondatore della Fiat, quella “Fabbrica Italiana Automobili Torino” che lo stesso Gianni porterà ai suoi massimi fulgori dopo gli anni passati come apprendistato, in qualità di vicepresidente, all’ombra di Vittorio Valletta, altra grande figura manageriale che ha saputo guidare l’azienda torinese con sagacia ed eccellenza dopo la scomparsa del fondatore avvenuta nel 1945.
Valletta aveva posto delle basi solidissime per la crescita della Fiat (favorendo l’immigrazione dal Mezzogiorno e conducendo con pugno di ferro le trattative con i sindacati), in un’Italia uscita provata e martoriata dall’esperienza della Seconda Guerra Mondiale. Grazie al boom economico e al rapido sviluppo, poi, gli italiani poterono permettersi i prodotti realizzati dalla casa torinese, che vanno da celebri scooter come la Lambretta ad altrettanto indimenticate autovetture come la Seicento, facendo della Fiat un marchio diffusissimo.
Nel 1966, finalmente gli viene conferito l’incarico del Presidente della Fiat. Da quel momento in poi per molti, Gianni Agnelli è stato il vero monarca italiano, quello che nell’immaginario collettivo ha fatto le veci della famiglia reale esiliata da un decreto costituzionale.
Ma la conduzione Agnelli non si rivelerà per nulla facile. Anzi, a differenza dei suoi predecessori, l’Avvocato si troverà ad affrontare quello che forse è stato il momento più difficile in assoluto per il capitalismo italiano, quello contrassegnato dalla contestazione studentesca prima e delle lotte operaie poi, fomentate e incentivate in modo virulento dall’esplosione rivoluzionaria. Sono gli anni in cui si susseguono i cosiddetti “autunni caldi”, un ribollire di scioperi e di picchetti che mettono in grave difficoltà la produzione industriale e la competitività della Fiat.
Agnelli, però, ha dalla sua parte un carattere forte e comprensivo, tendente alla mediazione delle parte sociali e alla ricomposizione delle contraddizioni: tutti elementi che gli permettono una gestione lungimirante e ottimale delle contestazioni, evitando di esasperare gli scontri.
In mezzo a tutte queste difficoltà riesce dunque a traccheggiare la Fiat verso porti dalle acque tutto sommato sicure. I suoi risultati sono evidenti per tutti e, dal 1974 al 1976 è eletto a gran voce Presidente della Confindustria, in nome di una guida che gli industriali vogliono sicura e autorevole. Anche questa volta, il suo nome è visto come garanzia di equilibrio e di conciliazione, alla luce della ingarbugliata situazione politica italiana.
Infatti in Italia, si stava consumando il cosiddetto “compromesso storico”, ossia quella specie di accordo che vedeva alleati il partito cattolico per eccellenza, quindi visceralmente anticomunista, come la Democrazia cristiana e il Partito Comunista Italiano, portavoce del socialismo reale e dell’alleanza ideale con la Russia (sebbene criticata e per certi versi ripudiata).
A corollario di questo quadro già incerto, vanno annoverate anche altre emergenze interne ed esterne di tutto rilievo, come l’endemica crisi economica e il sempre più articolato e incisivo terrorismo rosso di quegli anni, un movimento rivoluzionario che traeva forza da un certo consenso non così poco diffuso. Ovvio dunque che il “metodo Valletta” fosse ormai inconcepibile. Impossibile fare la voce grossa con il sindacato, nè era ormai pensabile usare quel “pugno di ferro” con cui il manager successore di Giovanni Agnelli era noto. Serviva invece un lavoro di concertazione tra governo, sindacati e confindustria: i responsabili di queste tre forze, saggiamente, sposeranno questa linea “morbida”.
Ma la crisi economica, malgrado le buone intenzioni, non lascia scampo. Le ferree leggi del mercato piegano le buone intenzioni e, alla fine degli anni ’70, la Fiat si trova nel bel mezzo di una terribile tempesta. In Italia imperversa una fortissima crisi, la produttività cala spaventosamente e i tagli all’occupazione sono alle porte. Discorso che vale per tutti e non solo per la Fiat, solo che quest’ultima è un colosso e quando si muove, in questo caso negativamente, mette paura. Per fronteggiare l’emergenza si parla di qualcosa come quattordicimila licenziamenti, un vero e proprio terremoto sociale, se realizzato. Si apre dunque una dura fase di scontro sindacale, forse il più caldo dal dopoguerra, passato alla storia grazie a record assoluti come il famoso sciopero dei 35 giorni.
Fulcro della protesta diventano i cancelli dei nevralgici stabilimenti di Mirafiori. La trattativa è in mano completamente alla sinistra, che egemonizza lo scontro, ma a sorpresa il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer promette il sostegno del Pci in caso di occupazione delle fabbriche. Il braccio di ferro si conclude il 14 ottobre, con la “marcia dei quarantamila” quando, del tutto inaspettatamente, i quadri della Fiat scendono in piazza contro il sindacato (caso unico di tutta la storia legata agli scioperi).
La Fiat, sotto pressione, rinuncia ai licenziamenti e mette in cassa integrazione ventitremila dipendenti. Per il sindacato e la sinistra italiana è una sconfitta storica. Per la Fiat è una svolta decisiva.
L’azienda torinese è pronta dunque a ripartire di slancio e su nuove basi. Agnelli, affiancato da Cesare Romiti, rilancia la Fiat in campo internazionale e, in pochi anni, la trasforma in una holding con interessi assai differenziati, che non si limitano più al solo settore dell’auto, ma vanno dall’editoria alle assicurazioni.
La scelta, al momento, risulta vincente e gli anni ’80 si rivelano fra i più riusciti di tutta la storia aziendale. Agnelli si consolida sempre di più come il re virtuale d’Italia. I suo vezzi, i suoi nobili tic vengono assunti come modelli di stile, come garanzia di raffinatezza: a cominciare dal celebre orologio sopra il polsino, fino all’imitatissima erre moscia e alle scarpe scamosciate.
Intervistato dalle riviste di mezzo mondo, si può permettere giudizi taglienti, a volte solo affettuosamente ironici, su tutti, dai politici in carica, agli amati giocatori dell’altrettanto amata Juventus, la passione parallela di una vita (dopo la Fiat, si capisce); squadra di cui, curiosamente, ha l’abitudine di guardare prevalentemente un solo tempo, il primo.
Nel 1991 è nominato senatore a vita da Francesco Cossiga mentre, nel 1996 passa la mano a Cesare Romiti (rimasto in carica fino al 1999). E’ poi la volta di Paolo Fresco presidente e del ventiduenne John Elkann (nipote di Gianni) consigliere d’amministrazione, succeduto all’altro nipote, Giovannino (figlio di Umberto e Presidente Fiat in pectore), scomparso prematuramente in modo drammatico per un tumore al cervello. Brillante e assai capace, doveva essere lui la futura guida dell’impero Fiat. La sua morte ha sconvolto non poco non solo lo stesso Avvocato, ma tutti i piani di successione dell’immensa azienda familiare. In seguito, un altro grave lutto colpirà il già provato Avvocato, il suicidio del quarantaseienne figlio Edoardo, vittima di un dramma personale in cui forse si mescolano (stabilito che è sempre impossibile calarsi nella psiche altrui), crisi esistenziali e difficoltà a riconoscersi come un Agnelli a tutti gli affetti, con gli onori ma anche gli oneri che questo comporta.
Il 24 gennaio 2003 Gianni Agnelli, dopo una lunga malattia si spegne. La camera ardente viene allestita nella pinacoteca del Lingotto, secondo il cerimoniale del Senato, mentre i funerali si svolgono nel Duomo di Torino in forma ufficiale e trasmessi in diretta da Rai Uno. Seguiti con commozione da un enorme folla, le cerimonie hanno incoronato definitivamente Gianni Agnelli come il vero monarca italiano.
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Andrea Carraro