L’anno 2009 sta per concludersi ma il neo-presidente della Grecia, George Papandreou, non porta al popolo greco lieta novella: la nazione è in bancarotta.
Una famiglia apprende la notizia alla televisione. Lei, la moglie, casalinga cinquantenne, sta servendo la cena; lui, il marito, impiegato statale, cinquantaduenne, invita i tre figli, di sei, nove e undici anni a sedersi a tavola: il mangiare si fredda. La notizia del possibile defaul entra in casa sottovoce, con un fare distratto. L’odore del pesce fritto ha viaggiato dalla cucina all’annessa sala da pranzo, ma è inverno, fuori fa freddo, ed è bene chiudere la finestra: al cattivo odore ci si fa il naso, al gelo invernale non ci si abitua mai. Il marito sta per alzarsi da tavola, ma lei, la moglie, gli sfiora dolcemente il polso invitandolo a restar seduto: chiuderà la finestra per lui.
Il freddo ha cessato di entrare, resta l’odore persistente di fritto. Il telegiornale continua a trasmettere la stessa notizia: la Grecia è prossima al collasso economico.
Il rumore dei piatti e delle stoviglie a tavola si confonde con i fiumi di parole emessi dalla televisione: agenzie di rating, Fondo Monetario Internazionale, piano di austerità, investitori retail, rischio di credito, ristrutturazione del debito, bond, spread, e chi più ne ha più ne metta.
“Io, di queste cose, non ci capisco niente”, dice il marito, chiedendo alla moglie di passargli il telecomando: tasto off, televisione spenta.
La tv si riaccenderà due anni dopo, il 21 novembre del 2011: per far fronte alla crisi avanzata, il governo metterà in mobilità immediata 30.000 dipendenti statali; 30.000 persone private del loro lavoro seduta stante. 30.000 persone: provate a contarle una per una. Lui, il marito, è solo una di queste. Siamo a marzo, anno 2013: loro, la moglie e i figli, si sono trasferiti a casa dei genitori di lei; non c’erano soldi per pagare l’affitto. Lui, il marito, ha lasciato la Grecia ed è migrato negli Stati Uniti: ha trovato impiego come cameriere in un ristorante greco gestito da un suo cugino. Detesta l’odore delle patatine fritte, perché gli riporta alla memoria quella sera, quella cena, la sua famiglia seduta a tavola, felice, il rumore delle stoviglie, e quel fastidioso farfugliare della televisione, che forse avrebbe fatto bene ad ascoltare.
Mi trovo tra le mani un libro, “ La sonata al chiaro di luna”, scritta da Ghiannis Ritsos (Monemvasia, 1º maggio 1909 – Atene, 11 novembre 1990), uno fra i massimi esponenti della poesia greca del Novecento, intrisa di surrealismo e populismo, sempre sospesa tra il passato glorioso dell’antichità e la decadenza della società contemporanea: una poesia, dunque, impregnata di nostalgia e al contempo impegnata nel sociale La poesia di Ritsos in alcune occasioni fu vietata in Grecia, con l’accusa di sostenere ideali di sinistra.
Eppure, nelle ultime pagine da lui lasciate, lo spirito di lotta che tanto permeava tutta la sua produzione precedente viene a stemperarsi in un tono più pacato, tuttavia senza mai rinunciare al suo “messaggio” sociale: “La sonata al chiaro di luna” non è un’opera a carattere politico, seppure in essa aleggi sempre un tono di denuncia della società filtrato attraverso gli occhi della protagonista, denominata dal poeta come La Donna in Nero. La donna, ormai prossima all’anzianità, si trova nella sua casa, una vecchia abitazione borghese, e insieme a lei vi è un giovane di bell’aspetto; si apre un dialogo, che in verità è un monologo, poiché il giovane ascolta in silenzio quanto la donna gli narra, senza mai intervenire né proferire parola. Le luci della casa sono spente, e i volti dei due “attori” sono rischiarati dai raggi lunari.
La luna diviene l’alter ego della Donna in Nero, tenendole compagnia nelle solitarie notti all’interno di una casa popolata dai fantasmi di un passato che sta cadendo a pezzi:
i chiodi si staccano,
i quadri è come se si tuffassero nel vuoto,
gli intonaci cadono in silenzio.
La luna, impietosa, fa luce sul passato dell’anziana figura rimasta sola, riesumando voci che la donna preferirebbe non ascoltare:
Con la luna ingrandiscono le ombre della casa,
mani invisibili tirano le tende,
un dito pallido scrive sulla polvere del piano
parole dimenticate – non le voglio sentire. Taci.
Quelle parole dimenticate sono echi di un rimpianto sommesso, il promemoria di una vita vissuta per soddisfare le aspettative di una famiglia borghese:
[…] E ora mi ricordo
che ritmavo così la musica quando andavo al Conservatorio
[…] e i miei riponevano
grandi speranze nel mio talento musicale.
Un’educazione rigida, che aveva reso la giovane schiava di una pretenziosità smisurata. Il rimpianto più grande, sicuramente, è l’aver rinunciato alla passione per la carne, sacrificando anima e corpo alla fede, a Dio: “ […] incendiata dagli sguardi voraci degli uomini e dall’estasi incerta degli adolescenti” , “così assediata, da dentro e fuori”, la ragazza si era ritrovata a scegliere, dunque, se tendere verso l’alto -l’anima, la purezza del corpo – o il basso – la terra, la corruzione della carne.
Il giovane interlocutore della Sonata, in silenzio, si carica dunque di un forza erotica che attrae magneticamente l’anziana donna la quale, seppur consapevole di un destino ormai compiuto, quello della solitudine, continua ad implorare il ragazzo silente di lasciarla andare insieme a lui, un un Leitmotive straziante che percorre tutta la lirica:
Lo so, ciascuno cammina solo verso l’amore,
solo verso la gloria e la morte.
Lo so. L’ho provato. Non giova a niente.
Lasciami venire con te.
Viene facile intuire come l’attraente interlocutore sia emblema e incarnazione della giovinezza, alla quale la donna non vorrebbe rinunciare, forse per poter rimediare ad un passato le cui scelte condizionate dalla società l’hanno condotta ad uno stato di tristezza e di degrado, lasciandole in bocca l’amaro di una vita non vissuta appieno.
Il lungo dialogo-monologo poetico si conclude col congedo del giovane il quale lascia la casa: la Donna in Nero, però, sceglie di non seguirlo. A breve anche lei lascerà l’abitazione, in un’accettazione piena del reale:
Tra poco esco. Grazie. Perché infine bisognerà
che esca da questa casa rovinata.
Devo vedere un po’ di città […]
la città con le sue mani callose, la città dal salario quotidiano,
la città che giura sul pane e sul pugno,
la città che ci regge tutti sulle spalle
con le nostre meschinità, cattiverie, inimicizie,
con le nostre ambizioni, la nostra ignoranza e la vecchiaia,
devo sentire i grandi passi della città,
per non sentire più i tuoi passi
né i passi di Dio, né i miei passi.
Un invito, quello del Ritsos, a tirare fuori la testa dalla sabbia e a guardare il mondo reale, quello che ci circonda, un mondo non filtrato dalla luce lunare di una casa senza via d’uscita, senza alcuna finestra sulla realtà. Un invito a non permettere mai che gli altri scelgano al nostro posto, assoggettandoci e muovendoci come marionette. Un invito e non spegnere la televisione solo perchè quanto ci viene detto – spesso con parolone incomprensibili – non ci risulta di facile comprensione.
La libertà di scelta è un diritto che non può essere rimandato al giorno dopo, poiché la luna giunge a tradimento a riempire le nostre case con le ombre del rimpianto.
Lui, il marito, di cui vi ho raccontato all’inizio, continua a detestare l’odore delle patatine fritte. Sta servendo una moussakà ad un tavolo di turisti tedeschi che gli lascerà un’esigua mancia. Una voce, invisibile e fraterna, venuta da lontano, gli sussurra all’orecchio: Lasciami venire con te.
Quell’uomo non è solo.