Per alcuni l’amore è cieco, per altri ha uno sguardo ben preciso: quello della morte. Amare e morire sono due attitudini dell’uomo strettamente correlate, poiché nella gioia più profonda si cela sempre l’ombra traditrice d’un dolore, spesso travestita dal timore che tale gioia possa consumarsi troppo in fretta. Massimo Ranieri in “Rose rosse” recita “D’amore non si muore, e non mi so spiegare perchè io muoio per te”, ben sintetizzando il nocciolo della questione che in questo articolo mi piacerebbe affrontare: si può morire d’amore?
L’amore, il sentimento più sublime e appagante che un essere umano possa vivere, può tramutarsi nel suo opposto – la morte – inducendo un uomo o una donna a togliersi la vita?
La risposta, per certo, è affermativa; ma ancora una volta, di fronte ad un “suicido d’amore” il giudizio personale delle persone si spacca in due: da un lato i cinici – i quali reputano assurdo o imperdonabile tale gesto estremo, compiuto in nome di un sentimento per il quale non varrebbe la pena, a loro giudizio, togliersi la vita – da un altro lato i “comprensivi”, ovvero coloro i quali riescono a giustificare un suicidio solo in seguito ad averne analizzato e rilevato le “cause reali”. Per certo riteniamo che un suicidio non possa essere né giustificato né biasimato ma che in quanto scelta personale di chi lo compie meriti ad ogni modo il rispetto di tutti quanti.
È difficile, in effetti, pensare che qualcuno possa ammazzarsi solo per esser stato vittima d’una delusione amorosa; d’altro canto si rischierebbe di scadere nella banalità di un giudizio superficiale e a priori qualora provassimo a ridurre le motivazioni di una tale scelta radicale– sicuramente dolorosa e sofferta sia per chi la compie che per chi la “subisce” – alla sola questione d’amore.
È sicuramente deformazione professionale del genere umano l’individuare a tutti i costi le cause di un decesso o le motivazioni che hanno potuto spingere qualcuno a puntarsi la pistola alle tempie o ad avvelenarsi: l’uomo non si rassegnerà mai al lutto della perdita, al fatto stesso che la vita abbia una sua propria durata e che – non diversamente da qualsiasi altro viaggio – essa, prima o poi, debba giungere al suo capolinea. La cultura occidentale respinge da sé l’idea della morte, e le religioni, per consolarsi e consolarci, da sempre hanno “coniato” l’idea felice di un aldilà, di un “dopo” inteso come continuazione della vita terrena.
Con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa e la loro consueta “spettacolarizzazione” di ogni cosa pure la morte è diventata degna di un palcoscenico: ci hanno abituato alle immagini dei fiumi di sangue che scorrono nella vita di tutti i giorni, sparsi qua e là per tutto il globo terrestre.
La morte è una, ed ha un solo sguardo: a fare la differenza è “la modalità” con la quale essa avviene. Per tale ragione morire uccisi da un assassino o morire in un incidente stradale non equivale al togliersi la vita: il suicidio è tutt’altra storia, e suscita nelle persone che ne vengono a conoscenza dei sentimenti contrastanti. Di lì le “frasi tipo” che passano di bocca in bocca dalle televisioni alle famiglie: “ che coraggio ha avuto nel compiere tale gesto”, oppure, ancor peggio, “che codardo sarà stato, per togliersi la vita”. La morte come spettacolo, dunque, con tanto di pubblico e di critica “cinematografica”.
Eppure, riflettendoci bene, che si muoia di morte naturale o assassinati o suicidi il risultato finale è sempre e solo uno: una vita si spegne.
Ciononostante, per quanto riguarda la questione del suicidio, il giudizio delle persone non è neppure sempre così netto come lo abbiamo disegnato fino a questo momento: uccidersi per amore e togliersi la vita perchè, ad esempio, si è perso il posto di lavoro, non sono la medesima cosa.
L’anno 2012 è stato costellato di suicidi compiuti dai tanti padri di famiglia i quali si sono visti soffocati dalla crisi economica: molti di questi avevano dovuto cessare le loro attività, altri erano stati licenziati, i più si erano ritrovati indebitati fino al collo o avevano a carico un mutuo salato da pagare. Nessuno ha ascoltato la loro voce prima che essi prendessero la decisione ultima di farla finita, ma le televisioni e le radio – non di rado alla stregua degli sciacalli – hanno provveduto, impietosi, a tenere il conteggio di quanti di loro si sono ammazzati, disegnandocene per filo e per segno le modalità della morte e presentandoci il conto finale, senza risparmiare il lungo elenco di persone morte suicide: un uomo si spara alle tempie, un altro si getta dal balcone, un altro ancora si soffoca col gas, un uomo si impicca al tetto di casa sua, e così via.
La Chiesa, secolare nemica del suicidio – sgarbo imperdonabile agli occhi del Dio cristiano, atto di ingratitudine nei confronti del padre eterno che ci ha donato la vita – si piega anch’essa di fronte a taluni episodi, assumendo un atteggiamento mediatore e perdonandone il gesto: se un uomo si toglie la vita perchè non sta nelle condizioni di poter mantenere la sua famiglia, i suoi funerali, allora, possono essere celebrati entro gli spazi sacri delle chiese.
Non tutti i suicidi, però, da che mondo è mondo, sono stati accolti nella grazia di Dio – del dio di cui gli ecclesiastici si fanno portatori del Verbum ed esecutori autorizzati – : la storia dell’uomo – l’arte, la letteratura, la musica, etc – è piena di casi di suicidio, le cui motivazioni sono varie.
Tanti gli uomini, dunque, che si son tolti la vita anche a causa di un amore. Una domanda, allora, sorge spontanea: forse questi uomini non meritano il perdono alla stregua di quei padri di famiglia che hanno compiuto il medesimo gesto mossi, però, da ben altre ragioni? Inoltre, c’è forse qualcuno sulla faccia della terra che sia tenuto a “perdonare” la scelta personale – condivisibile o meno, discutibile o meno – di chi decide, per libero arbitrio, di mettere un punto alla sua propria esistenza?
Ai posteri l’ardua sentenza e a ciascuno di noi una personale riflessione.
Una decisione netta e categorica – quale potrebbe essere quella di rinunciare alla propria stessa vita – non può essere riconducibile mai ad una sola ragione: che essa sia la perdita di un lavoro o una delusione d’amore. Dovremmo imparare a focalizzare l’attenzione più che sull’epilogo delle cose sull’iter che che hanno condotto a tale epilogo. Scavando indietro nella vita di una persona, allora, potrebbe essere forse possibile comprendere il perchè delle sue stesse scelte, seppur estreme ed in apparenza ingiustificabili.
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950), “delicato” scrittore e poeta della letteratura italiana del Novecento, con la sua travagliata vicenda personale e la sua carriera da intellettuale ha avuto modo, pian piano, di entrare sempre di più in contatto con quel desiderio perennemente soffocato seppur latente di morte che lo avrebbe condotto sino al suicidio. Eppure, guardando dall’esterno la sua biografia, dopo un percorso di vita non di certo facile, lo scrittore era riuscito ad ottenere alcuni meriti da lui tanto ambiti, quei riconoscimenti da sempre attesi per i quali aveva lavorato a fatica. Ciononostante qualcosa continuava a mancargli: l’arte e il successo non bastavano più, ed un senso di solitudine ingestibile aveva preso il sopravvento.
Solitudine alimentata da tutta una serie di delusioni e di terribili esperienze, le quali avrebbero raggiunto il loro picco nelle inconcludenti vicende amorose: le quattro donne che attraversarono la vita di Pavese furono per lui la sconfitta massima, poiché gli lasciarono in eredità la disillusione profonda di un sogno infranto, quello di una famiglia unita o di un nido d’amore, potenziale roccaforte dalle sue ansie e dalla depressione che sempre lo aveva accompagnato, come un’ombra pronta a prendere il sopravvento.
Perfino l’esperienza della carcerazione del poeta al Regina Coeli di Roma e il successivo confino (durato tre anni) in una piccola località calabrese – con l’accusa di antifascismo – erano stati causati, indirettamente, da colei che egli chiama la “donna dalla voce rauca”: Tina Pizzardo. Ella, infatti, impegnata politicamente e iscritta al clandestino Partito comunista d’Italia, aveva chiesto allo scrittore il favore di far recapitare la sua posta all’indirizzo di casa del Pavese: durante le perquisizioni compiute dalle guardie fasciste era stata rinvenuta una lettera che Altiero Spinelli – ex compagno della Pizzardo, arrestato per motivi politici – aveva inviato alla donna. Ma l’accusa ricade su Pavese il quale viene arrestato. Al suo ritorno dal confino in Calabria, come se non bastasse, Tina Pizzardi ha già contratto nozze con un altro uomo.
Così si concludeva, con grande rammarico e delusione da parte del poeta, la sua relazione con la donna.
Qualche anno dopo Pavese avrebbe chiesto la mano (per ben due volte) a Fernanda Pivano, sua ex studentessa universitaria: ma anche la Pivano gli dà picche.
A Fernanda segue Bianca Garufi, con la quale Cesare intrattiene una relazione dall’epilogo infelice. Alla fine della sua passione con la Garufi lo scrittore annoterà nel suo “zibaldone” personale le seguenti parole: “Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritte poesie belle, scoperta una nuova forma che sintetizza molti filoni (il dialogo di Circe). Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?” .
Cesare non riesce più ad occultare i suoi pensieri suicidi. Eppure le persone che lo circondano, pur accorgendosi del suo malessere, non riescono a stargli vicino. Finalmente, tra una bufera sentimentale ed un altra, arrivano i riconoscimenti al suo lavoro: ma neppure il Premio Strega, ricevuto per il libro “ La bella estate” nel giungo del 1950 riesce a sollevare l’umore dello scrittore, il quale partecipa alla cerimonia di premiazione in un evidente stato di depressione.
Il colpo di grazia – se così potremmo definirlo – proverrà dal suo ultimo amore, dalla relazione controversa con Constance Dowling, un’americana conosciuta a Roma, in casa di amici. Qualche tempo dopo l’inizio di questa relazione Pavese viene a conoscenza del fatto Constance intrattiene una relazione parallela con l’attore Andrea Checchi: la donna partirà per Hollywood in cerca di fortuna.
Tuttavia, alla relazione infelice con la Dowling dobbiamo l’ultima produzione lirica di Pavese: dieci poesie (datate 11 marzo- 11 aprile ’50) dedicate alla donna e raccolte sotto il titolo di “Verrà la morte a avrà i tuoi occhi”.
Le liriche composte dal Pavese ci rimandano l’immagine di una donna arida, priva di parola, la quale ascolta ma tace, divenendo emblema di paesaggi oscuri o ambigui, oscillanti tra il colore del mare e il nero della terra. Una donna in carne ed ossa che si tramuta in pensiero e visione, poiché la freddezza della sua figura “immobile” le restituisce un’aura immateriale, offrendo al poeta il pretesto per un lungo canto sofferto che trova il suo perno nell’irraggiungibilità del soggetto amato.
Le chiose di alcune di queste poesie palesano il caos amoroso dello scrittore, sospeso tra l’amore e la morte, diviso dall’immagine sdoppiata di una stessa donna che è al contempo “la luce e il mattino” e “ radice feroce”.
L’amore diventa, dunque, una lotta interiore destinata ad una sconfitta, in un’ultima speranza aggrappata alla fiducia – instabile – di un ritorno della donna amata:
Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi occhi selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.
.
Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.
.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole –
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
.
I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi più non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell’alba,
viso di primavera.
La realtà è ben altra, e il soggetto amato non si manifesta nella vita del poeta se non tornando nella sua memoria, nel flash di un momento. Dai passi di lei, “venuta di marzo dalla terra nuda” si dipana il dolore, e il paesaggio presso il quale ella si muove assume i connotati negativi della morte:
Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda –
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
– anemone o nube –
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.
.
[…] Ora ha una voce e un sangue
ogni cosa che vive.
Ora la terra e il cielo
sono un brivido forte,
la speranza li torce,
li sconvolge il mattino,
li sommerge il tuo passo,
il tuo fiato d’aurora.
Sangue di primavera,
tutta la terra trema
di un antico tremore.
.
[…] Hai riaperto il dolore.
Sei la vita e sei la morte.
.
[…] La speranza si torce,
e ti attende ti chiama.
Sei la vita e sei la morte.
Il tuo passo è leggero.
La morte e la vita coincidono come le due facce di una stessa medaglia nella figura di Constance. Ella infatti, pur emanando “un fiato d’aurora” o pur muovendosi con “passo leggero”, transita sulla terra come un terremoto, sommergendo e sconvolgendo le speranze del poeta.
Gli occhi della donna riflettono come uno specchio la morte stessa del Pavese, una morte sempre in agguato, compagna fedele e “sorda”, “rimorso” e “vizio assurdo”, poiché perennemente contemplata da lui:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagnato
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
La discesa “nel gorgo” è imminente: il 27 agosto del 1950 Cesare si toglierà la vita nella camera di un albergo romano, dopo aver ingerito più di dieci bustine di sonnifero.
Sul tavolino della camera verrà ritrovata una copia dei “Dialoghi con Leucò”, e dentro la prima pagina del libro una raccomandazione, scritta di suo pugno: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Il perdono invocato e generosamente concesso, purtroppo, non arriverà da tutti: i suoi funerali riceveranno solo il rito civile e non quello religioso.
Per quanto riguarda i pettegolezzi, invece, essi saranno inevitabili, proprio come accade in questi casi: in un mondo in cui gli esseri umani parlano attraverso le televisioni e vivono di scoop non vi è notizia migliore e redditizia di un uomo infelice che si è tolto la vita. Le ragioni di tale atto passano in secondo piano rispetto alla necessità dei mass-media di aprire sterili dibattiti sull’argomento, sviscerando morbosamente i “ma” e i “perchè”: così anche il gesto intimo e privato di un suicida diventa un affare di tutti, un volgare argomento di dibattito da talk-show. Eppure Pavese spera fino alla fine nel buon senso degli esseri umani, rinunciando alla propria vita ma non all’illusione che essi si limitino nel fare commenti sulla sua scelta personale.
Ma, caro Cesare, “Homo homini lupus”…Chi meglio di te potrebbe saperlo?