Manet, Ritorno a Venezia è il titolo della mostra allestita dalla Fondazione Musei Civici di Venezia, fino al 18 agosto, nelle sale di Palazzo Ducale. Ottanta all’incirca le opere, suddivise tra dipinti, disegni e incisioni. Fondamentale per la presenza cospicua di opere, la collaborazione con il Musée D’Orsay di Parigi, che conserva il maggior numero di capolavori del pittore francese. Riemerge così a Venezia l'anima italiana di Édouard Manet: la mostra ha infatti l’onore di svelare la dipendenza della lezione italiana per l'artista parigino. I suoi modelli furono vicini alla pittura italiana del Rinascimento, come dimostra l’esposizione al Palazzo Ducale, dove il pubblico può ammirare alcune delle opere ispirate ai grandi pittori veneziani del Cinquecento, da Tiziano a Tintoretto a Lotto in particolare. Édouard Manet fu il precursore dell’Impressionismo e la sua fonte vede una discendenza nitida dall’opera di Velázquez e di Francisco Goya. Ma la passione per l’arte italiana creò in lui un legame intensa con quegli stilemi, di cui da piena dimostrazione l’esposizione veneziana, che metterà finalmente in luce il suo rapporto stringente con l’Italia e la città lagunare.
Se Le Déjeuner sur l’herbe e l’Olympia (1863) sono chiaramente variazioni da Tiziano Vecellio e due splendide testimonianze della relazione di Manet con l’arte italiana, ancora molti sono gli esempi della profonda conoscenza dell’eredità di Venezia, Firenze e Roma, da parte del grande pittore, che la mostra saprà svelare. L’itinerario dell’esposizione, che percorre, attraverso grandi capolavori come Le fifre (1866), La lecture (1865-73), Le balcon (1869), Portrait de Mallarmé (1876 ca.), tutta la sua vita artistica, si apre con una serie di libere interpretazioni di antichi dipinti, affreschi e sculture che Manet vide durante i suoi due primi viaggi in Italia, nel 1853 e nel 1857. L’Italia del resto non è assente neppure nei dipinti di Manet più legati alla Spagna: la sua pittura religiosa si nutre tanto di Tiziano e Andrea del Sarto quanto di El Greco e Velázquez. Le sue silenti nature morte, dietro alla fedeltà alle formule olandesi, riservano molte sorprese che non solo rimandano alla tradizione nordica, ma sembrano anche ispirarsi a un vigore cromatico e costruttivo tutto italiano.
Quando il pittore si avvicina definitivamente alla “moderna” Parigi, la sua pittura non tralascia la memoria italiana, ma ne resta intrisa di ricordi. Le tele di Lotto e di Carpaccio, pensiamo alle Due dame veneziane affiancate in mostra a Le Balcon, raccontano di questi legami. L'accostamento della sfrontata Olympia alla Venere di Urbino prestata in via del tutto eccezionale dal Museo degli Uffizi, mina così definitivamente convenzioni fin troppo ripetute, ovvero che l'arte francese, e quella di Édouard in particolare, abbia raggiunto la propria indipendenza, sincerità e naturalezza solo nel respingere l'influenza del classicismo italiano. Ed è davvero emozionante vedere come la lezione tizianesca sia stata rivisitata eliminando certo – e la cosa è posta in risalto dal confronto ravvicinato – lo sfumato e i chiaroscuri e imponendo la linea fortemente tratteggiata, secondo un cromatismo di contrasto e di rapida stesura del colore, eppure avendo sempre come presenza costante di riferimento la celeberrima esecuzione del maestro veneto.
Il 1874, anno della I° Esposizione dei Pittori Impressionisti, è anche quello del suo terzo viaggio in Italia, dove ritrova anche la città amata da Turner e Byron, che immortala in due piccole tele, raffiguranti il Canal Grande. È quasi un incrociarsi con l’atmosfera già modernissima dell’ultimo Guardi. In questi due piccoli ma magistrali dipinti, che fungeranno da modello per molta pittura veneziana allo scorcio del XIX secolo, l’aria è così trasparente da far cantare le tonalità dei blu e dei bianchi della sua tavolozza come non mai. E anche nel suo celebre Bal masqué à l’Opéra (ora a Washington), rifiutato quell’anno dai giurati del Salon parigino, risuonano le musiche degli amori mascherati e del gioco ambiguo dell’identità, che sicuramente ha conosciuto attraverso l’opera del veneziano Pietro Longhi. Il terzo momento italiano della sua carriera parla delle ultime esperienze di un artista, che la morte stronca a soli 51 anni (1883). L’ultimo Manet, diviso tra l’esaltazione dei parigini à la page e la svolta repubblicana del 1879, fa gioire la pittura e infiammerà il Salon all’esposizione.
Paolo Fontanesi