QUANDO POMPEI DIVENTO’ UN MITO

Il successore del grande imperatore Vespasiano, morto il 23 giugno del 79, fu suo figlio Tito, dinamico e di animo gentile. Il nuovo imperatore si appresta a calcare le orme paterne nella tutela della pace sociale e militare, desideroso di vedere il suo popolo crescere e prosperare. 
Il trono dell’imperatore Tito durerà soltanto 27 mesi per la sua prematura scomparsa avvenuta a soli 42 anni. Si trova a fronteggiare le due grandi calamità dell’eruzione del Vesuvio e, l’anno successivo, di un gigantesco incendio a Roma. Egli si recherà ben due volte a Pompei partecipando anche con proprie risorse ai pochi interventi possibili in favore della popolazione colpita. Qualche decennio più tardi lo storico Gaio Svetonio Tranquillo lo definirà, nell’opera “De vita Caesarum”, “amore e delizia del genere umano“.
Nel caso di Pompei, nella tarda e calda mattinata del 24 agosto 79, succede qualcosa di grave, spaventoso ma anche estremamente interessante, dal punto di vista scientifico. Si tratta di un’eruzione vulcanica di Vesuvio, che porta a una pioggia di cenere e detriti. L’aria tutt’intorno va facendosi irrespirabile per il diffondersi dell’odore di zolfo e di altre esalazioni. La gente si allontana dagli edifici del centro abitato per paura dei crolli. Tutto è oscurito, non c’è più luce, tutto è buio. L’eruzione, in pochissimo cancella le città di Pompei, Ercolano, Oplontis e Stabia, luoghi, peraltro, già duramente provati e semidistrutti dal violento terremoto di 17 anni prima, nel 63. La cenere mista ad altro materiale lavico ad aver sepolto per alcuni metri i centri abitati tranne quello di Ercolano che viene sommersa per circa 20 metri da fango incandescente. Stabia verrà poi in parte ricostruita, ma dell’ubicazione di Pompei ed Ercolano si perderà memoria. 
La storia dell’eruzione del Vesuvio del 79 è giunta sino a noi grazie alla descrizione che Plinio il Giovane ne fa, molti anni dopo, allo storico Tacito gli chiede di raccontargli della morte dello zio Plinio il Vecchio e degli accadimenti di quei giorni. Ecco la sua descrizione di quanto accaduto a Miseno:
“…Allora, finalmente ci parve bene di uscire dalla città. Ci segue una folla sbigottita e ciò che nello spavento appare come prudenza, antepone il proprio parere all’altrui e in gran massa incalza e preme chi fugge. Usciti dall’abitato ci fermammo. Quivi assistiamo a molti fenomeni e molti pericoli. Infatti i carri che ci facemmo venire dietro sebbene il terreno fosse pianeggiante andavano indietro e neppure con il sostegno di pietre restavano nello stesso punto. Inoltre si vedeva il mare riassorbito in sé stesso e quasi respinto dal terremoto. Certamente il litorale si era allargato e molti pesci restavano a secco. Dal lato opposto una nera ed orrenda nube squarciata dal rapido volteggiare di un vento infuocato si apriva in lunghe lingue di fuoco; esse erano come lampi e più che lampi … né passò molto tempo che quella nube discese a terra e coprì il mare. Aveva avvolto e nascosto Capri e tolto dalla vista il promontorio di Miseno … Avresti udito i gemiti delle donne, le urla dei bambini, le grida dei mariti; gli uni cercavano a gran voce i padri; gli altri i figlioli; gli altri i consorti; chi commiserava la propria sorte; chi quella dei suoi. Vi erano di coloro che, per timore della morte, la invocavano. Molti supplicavano gli dei; molti ritenevano che non ve ne fossero più e che quella notte dovesse essere l’ultima notte del mondo … Fece un po’ di chiaro; né questo ci sembrava giorno, ma piuttosto la luce del fuoco che si avvicinava. Se non che il fuoco si arrestò più lontano; nuova oscurità e nuovo nembo di fitta cenere; noi ci alzavamo a tratti per toglierla di dosso; altrimenti ne saremmo stati se non coperti schiacciati… Finalmente si attenuò quella caligine e svanì come in fumo e nebbia; quindi fece proprio giorno ed apparve anche il sole, ma scolorito come suol essere quando è in ecclisse. Agli occhi ancor tremanti tutto si mostrava cambiato e coperto da un monte di cenere, come se fosse nevicato … Intanto continuavano le scosse di terremoto…”.

Solo 1500 anni dopo, fra il 1594 ed il 1600, nel corso dei lavori per la realizzazione di un canale irriguo fra il fiume Sarno e Torre Annunziata, vengono rinvenuti alcuni reperti e monete. Un’altra eruzione del 1631 provvede a ricoprire nuovamente il tutto.

Nel 1713, quasi un secolo più tardi, grazie prima al duca Emanuele Maurizio d’Elboeuf e poi a Carlo III di Borbone, hanno inizio scavi regolari che portano alla luce molti reperti di grande interesse fino ad una iscrizione su una lastra di marmo dalla quale si desume con certezza che quegli insediamenti sono l’antica Ercolano.
Nel 1748, grazie ad un contadino dobbiamo la scoperta definitiva di Pompei che si accorge che pochi metri lì sotto c’è tutto un mondo da portare alla luce.
Una buona parte di conoscenza della pittura romana fra il II secolo a.C. ed il 79 lo dobbiamo agli scavi di Pompei ed Ercolano. Dagli studi si sono potuti individuare ben quattro “stili pompeiani”, riferiti alle epoche di appartenenza: il primo va dal 150 a.C. fino all’80 a.C.; il secondo dall’80 a.C. alla fine del I secolo a.C.; il terzo giunge fino all’epoca di Claudio (41-54) ed il quarto riguarda l’età neroniana.
Gli ultimi due sono particolarmente importanti perché, trattandosi spesso di riproduzioni di grandi opere pittoriche greche andate perdute, ci hanno consentito di approfondire anche la conoscenza della pittura ellenica. Lo stesso discorso vale per l’arte decorativa a mosaico, testimoniata in particolare dal mosaico di Alessandro, nella casa del Fauno di Pompei, ma anche da insegne di negozi, da superfici pavimentali e dagli usi più diversi, come ad esempio l’avvertenza “cave canem”, sempre a Pompei. Sono molto importanti anche gli edifici e gli spazi pubblici rinvenuti, come il Foro, il tempio di Giove e della Triade Capitolina, la basilica per l’amministrazione della giustizia, il tempio di Apollo, il mercato coperto, il tempio di Vespasiano, il Comitium per l’elezione dei magistrati e le numerose case e ville private, come la villa dei Misteri, villa di Diomede, una grossa azienda agricola, la casa del Fauno, la casa degli Amorini dorati, la casa del Poeta tragico, la casa di Elpidio Rufo e molto importante per i suoi dipinti, la casa del Menandro.

Arman Golapyan